Torri negli ultimi anni del governo mediceo. Gli estimi del 1665 e del 1730. (1a parte)

di Alberto Pucci

Dopo l’incendio del castello, agli inizi del Quattrocento, il paese di Torri era rimasto a lungo disabitato[1]. Solo dopo la metà del secolo, per volontà del Comune di Pistoia, era iniziato un progressivo ripopolamento e un nuovo sfruttamento delle risorse territoriali. In questo processo di ripresa economica e sociale era stato determinante lo stabilirsi a Torri, nel 1458, con il consenso e favore delle autorità pistoiesi, di Niccolò di Giffredi del Secchio del contado di Reggio con tutti i suoi familiari e compagni[2].

Gran parte del merito di questa rinascita era dovuto anche alla sottomissione di Pistoia a Firenze. Questo fatto aveva favorito sia il superamento delle lotte fra le fazioni pistoiesi, che tanto danno avevano causato alle comunità della montagna, sia il conseguimento di una pace più duratura fra le varie città toscane, ormai quasi tutte inserite nello stato fiorentino[3].

Si può quindi supporre che il paese, inglobato ormai l’antico territorio di Monticelli, non più circondato da mura per necessità difensive, fosse diventato, verso la fine del Quattrocento, un villaggio aperto, sede di un piccolo comune rurale. Soltanto il nome restava a ricordare l’antica fortificazione.

Nella comunità, tuttavia, permaneva uno stato di povertà generale che si ripercuoteva anche sulla vita religiosa. Nel 1474, a causa del loro scarso reddito, le parrocchie di Santa Maria a Torri e di San Lorenzo di Fossato furono unite a quella di San Michele Arcangelo a Treppio, così come la chiesa di San Martino di Monticelli che già da tempo aveva perso la sua funzione di cura delle anime ed era caduta in rovina[4].

Nel corso del Cinquecento dai documenti traspare finalmente un progressivo incremento demografico. Nel 1562 il comune di Torri, che allora faceva parte della podesteria di Montale, aveva 66 fuochi e 215 bocche, vale a dire una popolazione di più di trecento abitanti[5]. Nel 1573 il numero dei torrigiani era salito a 418 e, nel 1599, a 500[6].

In questo territorio, perciò, si era lentamente formata una nuova comunità pacifica, dedita alla pastorizia, all’agricoltura e, soprattutto, allo sfruttamento della coltura del castagno. Per la collettività i nemici esterni rimanevano le epidemie, le carestie e le calamità naturali ed era sempre attuale la lotta per la sopravvivenza soprattutto durante i mesi invernali.

Nessun fatto importante si deve segnalare per Torri dalla metà del Quattrocento a tutto il Cinquecento. Le cronache non riportano alcun evento particolare, se non alcuni episodi sporadici legati alla vita ecclesiastica e messi in evidenza dalle visite pastorali dei prelati bolognesi[7].

Più interessante è la notizia della ricostruzione della chiesa di S. Martino alla Torraccia nel 1632 ad opera di un certo Pellegrino Matteoni, probabilmente conseguente al fatto che costui era rimasto illeso dall’epidemia di peste del 1630-31[8]. Questo fatto è importante perché attesta che nuove persone, il cui cognome è ancora oggi presente nel paese, vivevano a Torri in quel periodo.

Ma quale era il nome di queste famiglie? Di cosa vivevano e come erano stanziate sul territorio? Si possono ancora oggi riconoscere i luoghi in cui avevano lavorato e quale reddito avevano prodotto?

Per rispondere a queste domande abbiamo preso in esame il periodo di tempo che corrisponde agli ultimi anni del governo mediceo, un periodo non ancora del tutto studiato per quanto riguarda questa parte della montagna pistoiese. Le fonti storiche sulle quali abbiamo impostato la ricerca sono gli estimi di Torri del 1665 e del 1730, ancora inediti, sebbene noti agli studiosi, soprattutto quelli conservati nell’Archivio di Stato di Pistoia.

Si deve osservare, innanzitutto, che l’estimo del 1665[9] espone sia i possedimenti risalenti a questo anno di rilevazione dei dati che le successioni e i passaggi di proprietà degli anni seguenti, mentre l’estimo del 1730 è stato redatto in duplice copia, una presente nell’Archivio di Stato di Firenze[10] e l’altra situata nell’Archivio di Stato di Pistoia[11]. Va considerato, poi, che l’estimo del 1730 conservato a Pistoia presenta anch’esso date e annotazioni successive di voltura delle partite catastali che ampliano il quadro cronologico ben oltre la metà del Settecento. Ne consegue, così, che l’estimo del 1730 di Firenze, l’unico a riportare i dati strettamente riferibili all’anno di impianto, costituisce il trait d’union rispetto agli altri due e ci permette di sorvolare sia sulle volture successive al 1665 che su quelle posteriori al 1730, nel primo caso perché comprese nella rilevazione del 1730 e, nel secondo, perché troppo dispersive rispetto al quadro di riferimento.

È stato notato che gli estimi moderni sarebbero meno accurati e precisi rispetto a quelli medievali, soprattutto perché la rilevazione degli appezzamenti di terreno era generalmente affidata ai rappresentanti delle comunità locali[12].

In effetti, anche l’estimo di Torri del 1730 non fa eccezione. Per l’accertamento dei beni furono scelti Matteo di Zelone Bertinelli e Giovanni di Battista Batistini, due esponenti delle famiglie più presenti nel territorio[13]. Costoro, entro il termine di un mese, dovevano ricevere dai vari proprietari la nota dei loro possedimenti per poi trasmettere il tutto al cancelliere. A quest’ultimo spettava il compito della redazione finale. Singolare è il fatto che questo funzionario tenesse a disposizione, per un certo lasso di tempo, lo scartafaccio delle note compilato dalle persone incaricate del rilevamento prima della trascrizione finale, mettendo quindi a disposizione dei proprietari il risultato dei dati raccolti. In tal modo i contribuenti sarebbero potuti intervenire, in caso di errori, prima della stesura finale.

Secondo la normativa vigente in quegli anni l’estimo, nella sua forma definitiva, doveva essere consegnato al Consiglio e Pratica Segreta di Sua Altezza Reale per ricevere la convalida. Com’è noto, l’Ufficio della Pratica Segreta aveva il compito di dare il consenso granducale a questo tipo di documenti, oltre ad essere competente, tra l’altro, per l’appello nelle cause criminali e civili e per l’approvazione degli eventuali nuovi statuti delle comunità soggette. Nel caso di Torri, l’estimo fu consegnato alla Pratica Segreta il 5 settembre 1730 e approvato l’11 gennaio 1731[14].

Tornando al grado di precisione degli estimi, si deve constatare che, in certi casi, siamo in presenza di un consistente numero di variazioni grafiche dei toponimi. Questa differente trascrizione dei vocaboli è dovuta al diverso grado di istruzione e di precisione sia dei funzionari addetti alla compilazione che degli incaricati delle comunità locali. A questa mancanza di accuratezza si devono aggiungere gli errori di ortografia, il mancato o errato uso delle consonanti doppie, l’uso casuale delle maiuscole, la presenza della i dopo gn e le consuete abbreviazioni, contrazioni e usi particolari (come scrivere Redi invece di Eredi o v.l. per vedova libera) che hanno reso il testo di più faticosa lettura. Ciò ha comportato una maggiore attenzione da parte nostra in particolare nello stabilire un confronto con i nomi di luogo attuali. Nella trasposizione dei dati abbiamo comunque preferito lasciare i vocaboli così come erano stati trascritti.

Dal punto di vista fiscale la somma finale risulta diversa. Nell’estimo del 1665 si possono constatare errori nelle somme: per Antonio di Puccio Tonini[15] il totale doveva essere di 380 e non di 360 scudi, per Giovanni di Raffaello Gioffredi[16] di 48 invece di 45 e per Giovanni di Girolamo Matteoni[17] di 111 e non di 101. Nelle due versioni dell’estimo del 1730, al contrario, l’importo totale della collettività corrisponde esattamente alla cifra pagata da ogni singolo contribuente.

L’estimo del 1665, frutto del rimaneggiamento di diverse mani, è meno preciso. Esso presenta una consistente mole di carte caratterizzata da modifiche, correzioni, cancellature e rimandi dovuti alle volture degli anni seguenti e aggiunti in tempi successivi (v. figura 1).

L’estimo di Firenze del 1730, invece, è stato trascritto in modo più diligente rispetto a quello più vecchio. In origine consisteva di trecentonovantacinque carte, delle quali molte pagine lasciate in bianco, probabilmente per essere riutilizzate posteriormente per eventuali cambiamenti.

Le trasformazioni e integrazioni di altri dati, infatti, sono visibili nell’estimo di Pistoia dello stesso anno. Anche in questo caso, come nel precedente del 1665, la lettura appare a prima vista più complicata se desideriamo risalire all’impianto originario (v. figura 2).

Il confronto fra le due stesure del 1730 è stato quindi molto utile per recuperare più celermente le informazioni relative a questo anno.

Nella valutazione dei terreni vi sono degli aspetti sia positivi che negativi. Se da una parte non possiamo sapere l’estensione dell’area coltivata, perché non è stata riportata, dall’altra è possibile desumere il tipo di coltivazione in atto e la rendita dello stesso, oltre al nome dei proprietari. Si possono così apprendere non solo gli aspetti economici e demografici di questa comunità e i cambiamenti che sono avvenuti nell’arco di 65 anni, ma anche evidenziare le variazioni grafiche dei toponimi e conoscere quali antroponimi in quel periodo erano più comuni nella zona della Limentra orientale.

Per quanto riguarda le famiglie residenti sul territorio, il cognome dei capifamiglia più diffuso nel 1665 era quello dei Bettini (11)[18], dei Govi (10) e dei Bertinelli (9); seguiva quello dei Biolchi (6), dei Tonini (5), dei Matteoni (5), dei Gioffredi (5), dei Batistini (4), dei Turchi (2) e degli Antonini (2). Diversi nuclei composti da una sola famiglia risultavano originari di altre località, come i Benelli di Fossato, i Mirossi e i Ramazzotti di Treppio. Non è detto, tuttavia, che questi ultimi coltivassero direttamente la terra, anzi è più probabile che ne ricavassero i proventi in qualità di proprietari. Fra questi possessori esterni possiamo includere i Cheli[19] e i Petri[20] della Badia a Taona, i Lombardi[21] della pieve di Valdibura, i Morelli[22] di Candeglia. In un caso, comunque, possiamo essere sicuri: l’illustrissimo Signor Priore Cavaliere e Capitano Sebastiano Cellesi[23] di Pistoia verosimilmente aveva affidato ad altri la cura del suo castagneto di Torri.

Nell’estimo del 1665, inoltre, emerge un quadro formato da un insieme di piccoli poderi (da uno a dodici per famiglia). Su un totale di 399 appezzamenti risultano in maggior numero i castagneti (207) e i terreni lavorativi (79). A questi ultimi vanno probabilmente aggiunti, anche se non è precisata la loro funzione, i cosiddetti pezzi di terra (37) e le piagge (o spiagge) (10), ovvero i terreni situati su un declivio. Meno diffusi sono i campi (37) e le selve (20), gli uni consistenti in superfici sottoposte a determinate colture e le altre delle zone boschive lasciate per il taglio o per fare carbone. Ancora più rari appaiono i terreni a tipologia mista (terra lavorativa e castagnata) (8)[24]. Da notare, infine, che è stimato un solo prato. Si potrebbe pensare, perciò, che non esistesse alcun tipo di allevamento, in particolare degli ovini. In realtà, non è così: le zone conservate per il pascolo facevano parte dei beni della comunità ed era quest’ultima a gestirli, così come a porre delle regole da rispettare per un’eventuale transumanza. Nelle comunità della montagna fin dagli statuti più antichi era riservata una particolare attenzione al pascolo degli animali e anche Torri non faceva eccezione.

Le proprietà potevano avere un reddito molto basso, come quelle di Niccolao d’Antonio Biolchi[25], il cui valore complessivo ammontava a quattordici scudi, o molto alto. In questo caso, si distingue fra tutti il reddito di Matteo di Battista Turchi[26], che possedeva dodici appezzamenti, fra campi lavorativi e castagneti, del valore di ben 710 scudi. La cifra assume una rilevanza particolare se si pensa che solo in ventidue casi su novantaquattro era superata la soglia dei cento scudi e soltanto in cinque casi era oltrepassato il limite dei trecento.

Poco si può dire sul reddito ricavato dal tipo di coltura di un podere a causa della mancanza di indicazioni sull’estensione dello stesso. Probabilmente i castagneti, i terreni lavorativi e i campi coltivati rendevano di più, mentre i semplici appezzamenti lasciati a bosco ceduo offrivano meno risorse.

Le donne proprietarie erano veramente poche, appena sette, di cui due vedove. Il loro reddito pro-capite non oltrepassava i sessanta scudi. Potevano essere proprietarie di un solo fondo, come nel caso di Cecilia d’Antonio Tonini[27], che era stimato venti scudi, oppure di più appezzamenti, come i tre di Madalena di Giovanni Tondinelli[28] e di Sabatina di Francesco Bettini[29] i cui poderi avevano un valore rispettivamente di ventiquattro e di ventitré scudi, ossia di poco superiore rispetto al precedente.

Alcune volte le proprietà erano delimitate da tenute appartenenti ad altri familiari, come nel caso di Antonio di Giovanni Pavoni[30], le cui terre confinavano con quelle di Bernardo, Michele, Domenico e Bartolomeo Pavoni. Ci sembra questa la conseguenza di una probabile spartizione ereditaria. Non era insolito, infatti, che le famiglie tendessero a dividere i loro beni con i propri parenti sia per propria volontà che per diritto di successione. Come vedremo, queste ripartizioni saranno più frequenti nell’estimo del 1730.

Un altro particolare è da mettere in evidenza. Da una perizia risulta che Pellegrino di Benedetto Bertinelli[31] possedeva un pezzo di terra castagniata l.d. Monticelli conf. p.o beni di S. Martino, 2 Chiesa per una rendita di scudi cinquanta. La chiesa di S. Martino continuava dunque ancora ad esistere e, per di più, aveva acquisito varie proprietà, come è possibile dedurre dalle sue numerose citazioni.

Se nell’estimo del 1665 la somma totale dei contributi era di scudi 8215 (tenendo conto dei tre errori per un importo di trentatré scudi), la cifra totale di quello del 1730 risultava invece di scudi 8587, ovvero esattamente come dichiarato dal relatore[32].

È evidente, pertanto, un incremento dei contributi, dovuto al maggior numero delle persone presenti sul territorio. Alle famiglie stanziali di Torri, la cui diffusione ora è cambiata: Gioffredi (18), Matteoni (12), Tonini (11), Bertinelli (11), Govi (10), Turchi (8), Batistini (7), Pavoni (7), Petri (7), Bettini (7), Fabbretti (6), Antonini (5), Biolchi (4), Fracassi (3), Mattei (2), Pigoni (2), Nasini (1) e Tondinelli (1), si sono aggiunti capifamiglia la cui origine diversa è espressamente indicata. Si tratta dei Simoni (8), dei Chelli (3) e dei Benelli (1) di Fossato, dei Butelli (3), dei Ramazzotti (2), dei Toti (1) e dei Biagiarelli (1) di Treppio, dei Bori (1) di Badi, dei Nesi (1) di Tobbiana e degli eredi di un Andrea di Stagno (1) non meglio precisato[33]. La provenienza da Treppio degli Agresti (1) è ricordata in una carta dell’estimo[34] e quella dei Gualandi (1), originari della stessa località, in diversi documenti antichi[35], mentre non è documentato il luogo d’origine della famiglia Bonacchi (1).

Per alcune famiglie delle quali negli estimi non è indicata la derivazione si può ipotizzare la loro presenza nel territorio di Sambuca dai toponimi ancor oggi conosciuti. Come per i Toti (v. Casa Totti a Treppio), ricordati prima, può essere dedotta la provenienza dei Franchi (1) (v. Casa Franchi a Treppio), degli Ulivi (1) (v. Casa Ulivi e Villa Ulivi a Treppio) e dei Martini (1) (v. Casa Martini a Pavana)[36].

Si deve rilevare, infine, che alcune famiglie, come i Tonini e i Pavoni, allora fra le più numerose, sono oggi in via d’estinzione, mentre non sono più presenti nel territorio i Fracassi, i Pigoni, i Petri e i Bonacchi[37].

La maggiore fonte di sostentamento e di guadagno per la popolazione del 1730 continuava ad essere il raccolto delle castagne, come possiamo dedurre dalla tipologia degli appezzamenti. Dalle carte dell’estimo ricaviamo che primeggiavano i castagneti (416), seguivano i terreni lavorativi (208) e, da ultimo, i terreni a tipologia mista (13), i terreni non coltivati (6), le piagge (4) e il prato (1).

Come detto per l’estimo precedente, l’allevamento delle pecore e delle capre seguitava comunque ad essere praticato nei pascoli appartenenti alla Comunità situati al di sopra dei 1100 metri.

Da notare che le zone boschive situate nelle vicinanze di Torri, abbastanza numerose nell’estimo del 1665, in quello del 1730 non sono più menzionate, segno evidente di un disboscamento consapevole a vantaggio di uno sfruttamento più intenso delle zone coltivate e dei castagneti. 

Per quanto riguarda il reddito, l’importo pro-capite da pagare risulta inferiore a quello dell’estimo del 1665, ma non per una diminuzione delle tasse, bensì per una minore estensione degli appezzamenti.

Su un totale di 152 persone, trentacinque dovevano dare all’erario granducale dai tre ai sedici scudi per uno o al massimo due terreni. Il numero delle proprietà, come abbiamo visto, non è indicativo. Maria, vedova libera da Michele Nesi[38] da Tobbiana, per esempio, possedeva un solo terreno, ma stimato in quindici scudi, mentre Pellegrino di Piero Matteoni[39], che di terreni lavorativi ne aveva due, doveva pagare soltanto quattro scudi. Da queste famiglie era ricavato l’introito più basso.

Altri sessantasette contribuenti, con un profitto incluso fra i venti e i cinquantanove scudi, rientravano in una fascia di guadagno media.

Quarantotto capifamiglia, infine, mostravano un reddito alto, compreso fra i sessanta e i cento scudi e oltre.

Soltanto uno, o meglio una, perché si tratta di Lucia, vedova libera da Giovanni Turchi[40], doveva versare ben 201 scudi per dodici appezzamenti.

Domenico e Michele di Battista Chelli[41], infine, erano proprietari di quattordici poderi tassati per 376 scudi. Questa sarebbe la cifra più alta in assoluto, ma si deve considerare che la stima comprende la rendita congiunta di due fratelli e che perciò dovrebbe essere ridotta della metà.

Dal quadro generale dell’estimo del 1730 emerge dunque un più accentuato frazionamento in proprietà meno estese con una rendita pro-capite più bassa rispetto a quella del 1665.

Ci si deve chiedere, a questo punto, quali siano state le cause di questo cambiamento, sia pur graduale, con il trascorrere degli anni.

In primo luogo si può supporre che la trasformazione sia dovuta ad un maggiore interesse per il settore agricolo e quindi ad una più intensa richiesta di compra-vendita dei castagneti e dei terreni lavorativi. Il mercato, in quegli anni, era tendenzialmente in crescita per quanto riguardava l’agricoltura. Non a caso, qualche anno prima, nel 1726, era stato pubblicato il libro L’agricoltore sperimentato del pistoiese Cosimo Trinci, segno del rinnovato interesse per questo settore.

In secondo luogo si può affermare che la maggiore lottizzazione in unità sempre più piccole era dovuta anche all’incremento demografico degli abitanti e alle conseguenti numerose spartizioni ereditarie.

Questo è possibile accertarlo dal nome di coloro il cui terreno era limitrofo a quello di altri proprietari.

Fra i diversi beni di Giovanni di Bartolomeo Gioffredi[42] constatiamo che due appezzamenti in località Bosco (oggi Casa al Bosco) erano vicini a quelli di altri esponenti di questa famiglia. Lo stesso si può dire per Bartolomeo di Domenico Gioffredi[43] le cui proprietà, sempre al Bosco, erano attigue a quelle di altri parenti. Il castagneto di Piero di Stefano Petri[44], inoltre, ancora al Bosco, confinava con i possedimenti di Giovanni di Pellegrino Gioffredi, Marco di Pellegrino Gioffredi e Pellegrino di Pellegrino Gioffredi, mentre un altro era prossimo a quello di Lucia di Pellegrino Gioffredi. È facile dedurre che questi ultimi erano tutti figli dello stesso genitore.

Domenico di Marco Matteoni[45] e Giovanni di Girolamo Matteoni[46], invece, avevano terreni lavorativi alla Borra (oggi Bora), una località vicino alla Torraccia. Ai loro confini rileviamo unicamente esponenti di questa famiglia. Girolamo di Pellegrino Matteoni[47], poi, possedeva un pezzo di terra lavorativa situato alla Casa (oggi La Ca’) adiacente ai terreni di Pellegrino di Benedetto Matteoni, di Giovanni di Girolamo Matteoni, di Matteo di Giovanni Matteoni e degli eredi di Matteo Matteoni.

Piero di Battista Batistini[48] era proprietario di un pezzo di terra lavorativa alla Ciliegia vicino ai beni di Sabatino di Berto Batistini, Giovanni Battista di Giovanni Batistini e Giovanni di Battista Batistini e di un castagneto più a valle, in località Piaggiotta, adiacente alle proprietà di Sabatino di Berto Batistini, Giovanni Battista di Biagio Batistini e Marco Batistini.

I Bertinelli erano sparsi un po’ ovunque sul territorio. Il castagneto di Battista di Michele Gioffredi[49] in località Insedite, tuttavia, era circondato prevalentemente dai membri di quella famiglia: Antonio di Giovanni Bertinelli, Giovanni Sabatino di Sabatino Bertinelli e Pasquino di Benedetto Bertinelli.

Il castagneto di Domenico di Giovanni Tonini[50], infine, era situato al Casone e confinava quasi da ogni parte con quelli di altri suoi parenti: Santo di Piero Tonini, Jacopo di Antonio Tonini e Domenico di Salvestro Tonini.

Come si può dedurre, dunque, il terreno di un proprietario confinava abbastanza frequentemente con quello di altri parenti, conseguenza delle suddivisioni familiari in unità più piccole e più numerose.

I beni che non venivano ereditati, ma ricevuti in donazione, erano quelli della chiesa. Le proprietà ecclesiastiche, sia quelle della chiesa di Santa Maria Assunta a Torri che quelle dell’oratorio di San Martino, risultano esenti dal pagamento del tributo per l’indipendenza dello status religioso rispetto a quello laico in materia fiscale.

La medesima cosa non si può affermare per le varie Compagnie alle quali aderivano molti fedeli. A Torri erano state fondate a partire dalla fine del Cinquecento fino alla prima metà del Seicento[51].  Ciascuna di esse aveva un obbligo particolare, come la manutenzione in chiesa di un altare specifico e di far dire la messa in determinate occasioni[52]. Con il passare degli anni, tramite le offerte dei fedeli, avevano acquisito beni che erano stati investiti in terreni agricoli e castagneti, così da incrementare i proventi. Non menzionate nell’estimo del 1665, queste Compagnie sono presenti in quello del 1730 in quanto soggetti produttori di reddito non facenti parte dei beni della chiesa.

Si tratta della Compagnia del Santissimo (da intendersi del Santissimo Sacramento)[53] che aveva tre castagneti e un terreno lavorativo, il tutto del valore di ventuno scudi; della Compagnia di S. Antonio[54] che possedeva un terreno lavorativo, uno a coltura mista e un castagneto per un contributo di ventitré scudi; della Compagnia della Cintura[55] che era padrona di due castagneti per una rendita di trentacinque scudi; della Compagnia del Rosario[56] che era detentrice di due castagneti e di un terreno lavorativo per una tassa complessiva di trentanove scudi.

Anche la Comunità di Torri[57] doveva finanziare l’erario granducale, nonostante risultasse proprietaria di un unico castagneto del valore di appena dieci scudi. La sua rendita, tuttavia, appare sottostimata, se pensiamo che i beni della Comunità confinavano con altri possedimenti privati in almeno ventisei casi. La partecipazione minima può essere spiegata con il fatto che i beni di Torri e quelli del Granducato coincidevano, dal momento che tutte le proprietà del comune facevano parte del patrimonio mediceo. L’eccezione suddetta era forse dovuta ad un caso particolare che dall’esame delle carte non ci è dato sapere.

A pochi anni dalla morte (1737) del granduca Giangastone, ultimo esponente della dinastia dei Medici, la comunità di Torri stava dunque trascorrendo un periodo abbastanza positivo della sua esistenza, sia per le accettabili condizioni economiche che per la pace ormai continuativa in questa zona della montagna pistoiese. Questa relativa tranquillità, tuttavia, non era destinata a durare. Di lì a poco, il parroco del paese don Petronio Pupilli (insediatosi nel 1777), il vescovo Scipione de’ Ricci (1780-1791) e il granduca Pietro Leopoldo (1765-1790) sarebbero stati i protagonisti di significativi cambiamenti che avrebbero portato gli uomini del paese, in alcuni casi, ad un aperto dissenso[58].

              Figura 1 Possedimenti di Giovanni di Sabatino Turchi                     Figura 2 Possedimenti di Battista di Michele Gioffredi  

              (Archivio di Stato di Pistoia, Estimo del 1665, c.36r)[59]                      (Archivio di Stato di Pistoia, Estimo del 1730, c.240r)


[1] A. Pucci, Torri e Monticelli nel Medioevo, Pistoia, Settegiorni, 2016, pp.89-95 e 111-114.

[2] M. Salvi, Delle historie di Pistoia e fazioni d’Italia, Roma, 1656-1662 (ristampa anastatica: A. Forni, Bologna, 1978, 2 voll.), vol. II, pp.374-375; J. M. Fioravanti, Memorie storiche della città di Pistoia, Lucca, Benedini, 1768 (ristampa anastatica: A. Forni, Bologna, 1968), p.357.

[3] Storia di Pistoia, vol. III, Dentro lo stato fiorentino. Dalla metà del XIV alla fine del XVIII secolo, a cura di G. Pinto, Firenze, Le Monnier, 1999.

[4] R. Zagnoni, Crisi religiosa e riforma ecclesiastica fra bolognese e pistoiese. Il caso di Treppio e della pieve di Casio, in La parrocchia montana nei secoli XV-XVIII, Atti delle giornate di studio (Capugnano, 11 e 12 settembre 1993), Bologna-Porretta Terme-Pistoia, 1994 (“Storia e ricerca sul campo fra Emilia e Toscana”, 1), pp.59-68.

[5] F. Mineccia, Dinamiche demografiche e strutture economiche tra XIV e XVIII secolo, in Storia di Pistoia, vol. III, cit., pp.155-238 (cfr. Appendice, p.231).

[6] R. Zagnoni, La parrocchia di Santa Maria Assunta di Torri nel Cinquecento, in Torri e il comprensorio delle Limentre nella storia, Relazioni tenute a Torri nei mesi di agosto del 1992,1993, 1994, Porretta Terme-Pistoia, 1995 (“Storia e ricerca sul campo fra Emilia e Toscana”, 3), pp.33-44.

[7]  R. Zagnoni, Le visite pastorali dei vescovi e degli arcivescovi bolognesi nelle parrocchie pistoiesi della diocesi di Bologna, Bullettino Storico Pistoiese, XCIV, Pistoia, Società pistoiese di storia patria, 1992, pp.39-55.

[8]  R. Zagnoni, L’oratorio della Torraccia presso Torri. Note storiche sulla chiesa di San Martino di Monticelli nei secoli XI-XVII, “Nuèter”, XIX, n.37, Porretta Terme, Gruppo di studi alta valle del Reno, giugno 1993, pp.136-140; A. Pucci, La chiesa di San Martino a Monticelli, “Nuèter”, XLII, n.83, Porretta Terme, Gruppo di studi alta valle del Reno, giugno 2016, pp.80-87.

[9] Archivio di Stato di Pistoia, Catasto Granducale, 793, Estimo di Torri del 1665.

[10] Archivio di Stato di Firenze, Decima Granducale, 7748, Estimo di Torri del 1730.

[11] Archivio di Stato di Pistoia, Catasto Granducale, 794, Estimo di Torri del 1730.

[12]  P. Foschi, Sommario del dibattito, in Villaggi, boschi e campi dell’Appennino dal Medioevo all’Età contemporanea,Atti delle giornate di studio (21 luglio, 6 agosto, 14 settembre, 17 novembre 1996), a cura di P. Foschi, E. Penoncini, R. Zagnoni, Porretta Terme-Pistoia, Gruppo di studi alta valle del Reno-Società pistoiese di storia patria, 1997 (“Storia e ricerca sul campo fra Emilia e Toscana”, 5), p.10.

[13] Estimo di Torri del 1730, c.1r (Firenze-Pistoia). Le località degli archivi sono state indicate insieme fra parentesi quando le carte con lo stesso contenuto si trovano, nei due volumi, nella medesima posizione.

[14] Ibidem, c.1v.

[15] Estimo di Torri del 1665, c.3r.

[16] Ibidem, c.42r.

[17] Ibidem, c.45r.

[18] I numeri fra parentesi si riferiscono alla somma totale delle citazioni come contribuenti. Più avanti, i numeri si riferiscono alla diffusione del tipo di coltura.

[19] Estimo di Torri del 1665, c.168r.

[20] Ibidem, cc.169r-170r.

[21] Ibidem, c.175r.

[22] Ibidem, c.179r.

[23] Ibidem, c.182r.

[24] Per dare un’idea di questa classificazione citiamo uno dei possedimenti di Giovanni di Benedetto Bertinelli che consisteva in un pezzo di terra lavorativa con quattro castagni situato a Meruggi del valore di tre scudi (Ibidem, c.38r).

[25] Ibidem, c.93r.

[26] Ibidem, c.77r.

[27] Ibidem, c.25r.

[28] Ibidem, c.79r.

[29] Ibidem, c.130r.

[30] Ibidem, c.5r.

[31] Ibidem, c.103r.

[32] Estimo di Torri del 1730, c.1r (Firenze-Pistoia).

[33] È opportuno ricordare che una caratteristica del relatore dell’estimo del 1665 era quella di tralasciare le doppie nei nomi di persona. Il cancelliere del 1730, invece, usò una forma più corretta. Lo stesso cognome, perciò, può essere scritto in una forma diversa, ma è comunque lo stesso se lo confrontiamo con la dizione moderna: Batistini = Battistini; Bori = Borri; Cheli = Chelli; Fabretti = Fabbretti; Toti = Totti, etc.

[34] Estimo di Torri del 1730, c.205v (Firenze-Pistoia).

[35] Dizionario Toponomastico del Comune di Sambuca Pistoiese, a cura di N. Rauty, Pistoia, Società pistoiese di storia patria, 1993, p.181.

[36] Ibidem, ad vocem.

[37] Ibidem, ad vocem.

[38] Estimo di Torri del 1730, c.200r (Firenze-Pistoia).

[39] Ibidem, c.40r.

[40] Ibidem, c.136r.

[41] Ibidem, c.139r.

[42] Ibidem, cc.106r-v.

[43] Ibidem, c.108r.

[44] Ibidem, c.262r.

[45] Ibidem, c.250r.

[46] Ibidem, c.252r.

[47] Ibidem, c.194v.

[48] Ibidem, c.203r. Per i Battistini v. anche la c.232r, ibidem.

[49] Ibidem, c.240r.

[50] Ibidem, c.208r.

[51] A. Pucci, La chiesa di Torri: note storiche dalle origini al XIX secolo, in Torri. Storia, Tradizioni, Cultura, Atti degli incontri culturali dal 1996 al 2002, a cura di P. Gioffredi, Associazione per lo sviluppo turistico di Torri-Società pistoiese di storia patria, Torri (Pistoia), 2003, pp.59-104.

[52] Ibidem, p.66 e nota 39.

[53] Estimo di Torri del 1730, c.90v (Firenze-Pistoia).

[54] Ibidem, c.248r.

[55] Ibidem, c.120r.

[56] Ibidem, c.187r.

[57] Ibidem, c.156r.

[58] Per queste vicende storiche cfr. A. Pucci, La chiesa di Torri…, cit.

[59] Le due figure sono state pubblicate con l’autorizzazione dell’Archivio di Stato di Pistoia del 17 aprile 2018 (Prot. N. 881, Cl. 13.13.22/1.38).

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A. Pucci, Torri negli ultimi anni del governo mediceo. Gli estimi del 1665 e del 1730 (prima parte), “Nuèter”, XLIV, n.87, Porretta Terme, Gruppo di studi alta valle del Reno, giugno 2018, pp.97-108.

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